Aprile 20, 2024

«Il lavoro precario è ineluttabile?», messaggio dell’Arcivescovo per il 1° maggio

Messaggio di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, ai lavoratori, agli imprenditori e alle loro famiglie per la Festa del Lavoro – San Giuseppe Artigiano del 1° maggio.

Carissimi,

il Primo Maggio, Festa del Lavoro, la Chiesa fa memoria di san Giuseppe Artigiano, il falegname che accolse Gesù come figlio e lo allevò insieme a Maria nella sua famiglia. È un accostamento molto bello e carico di significato: Giuseppe è la persona che si realizza e può essere padre, può farsi carico di una famiglia, perché ha un lavoro che gli dà sicurezza.

Dovrebbe essere la condizione di tutti: avere un lavoro sicuro e adatto ai ritmi della vita. La Bibbia ne fa un requisito fondamentale quando riferisce che «Dio prese l’uomo e lo depose nel Giardino dell’Eden, perché lo lavorasse e lo custodisse» (Gen. 2, 15). La Costituzione Italiana vorrebbe che il lavoro fosse la sicurezza di tutti (art. 1). Invece oggi la caratteristica principale del lavoro è purtroppo l’insicurezza, l’instabilità: è precarietà dei contratti che non danno garanzie di durata nel tempo, è svuotamento dei salari che non reggono l’aumento vertiginoso dei prezzi, è deregolazione dei turni del lavoro e del commercio che non hanno più orari e stravolgono i ritmi delle famiglie, tengono i genitori lontani dai figli o dai familiari anziani anche nei giorni di festa, anche la sera… Stiamo entrando nel tempo della precarietà, che è l’esatto contrario della sicurezza. Dobbiamo rassegnarci a tutto questo? È proprio tutto ineluttabile?

Sono molto colpito dai dati diffusi dall’Osservatorio sul Precariato dell’Inps: in provincia di Torino, questa nostra città che da decenni patisce la crisi post-industriale, i contratti di lavoro «precario» rappresentano più del 70% dei nuovi impieghi. Significa che la stragrande maggioranza dei nuovi lavoratori non può permettersi di scommettere con tranquillità sul proprio futuro. La maggior parte degli impieghi è a tempo determinato oppure stagionale, intermittente. Ma come pensare che i giovani progettino la loro vita, magari una vita di coppia, magari una vita con figli, se il lavoro va e viene e non può promettere loro nulla?

Nella difficoltà di tenere in mano le redini della propria vita, nella impossibilità di fare progetti, viene in discussione il senso stesso della nostra esistenza ed è questo che deve preoccuparci. Viene meno la possibilità di essere pienamente uomini e donne, pienamente liberi e dignitosi. Perché il lavoro non è solo l’attività che ci permette di sopravvivere: serve a realizzarci come persone.

Ovvio che non ignoro le sfide del mercato ed anche la durezza delle nuove regole economiche, che incalzano gli imprenditori spingendoli a regolare i ritmi del lavoro in modo così insoddisfacente. Però vorrei che la Festa del Lavoro fosse l’occasione per fermarci tutti – imprenditori, lavoratori, classe politica – a riflettere sulla direzione che stiamo prendendo. Riflettere su una certa nostra rassegnazione alla novità dei tempi, che purtroppo stanno, forse per la prima volta, peggiorando anziché migliorando la vita dei lavoratori e delle famiglie. Se non c’è miglioramento, dobbiamo avere il coraggio di dircelo e farlo ad alta voce: non siamo sulla strada giusta.

C’è poi sempre l’altra dimensione del problema lavoro: la quota non indifferente di persone che fatica ad accedere a qualsiasi tipo di impiego, aumentando le fila della disoccupazione involontaria, mettendo a repentaglio l’inclusione e la possibilità – di nuovo – di progettare la propria vita con serenità. Da sempre questa dolorosa esperienza produce disillusione: oggi sono tante le persone che addirittura rinunciano a cercarsi un lavoro perché sono sconfortate dagli ostacoli, quasi insormontabili, da superare. Devono preoccuparci i tanti giovani che scelgono di non scommettere più su sé stessi, allargando, soprattutto dopo la pandemia, il fenomeno dei giovani NEET che non studiano più, ma neanche lavorano.

Carissimi, il presente è difficile, ma possiamo affrontarlo con speranza: il futuro è sempre nelle nostre mani. Voglio credere che la precarietà del lavoro non sia una realtà immodificabile: dipende dalla nostra capacità di governare i fenomeni sociali e i processi economici. Ecco perché dobbiamo parlarne e non essere passivi. Voglio credere che le organizzazioni sindacali, le imprese e i loro sistemi di rappresentanza, l’educazione, la scuola e la formazione professionale, il prezioso universo del Terzo Settore e le istituzioni pubbliche possano invertire la rotta per ri-centrare il nostro modello di sviluppo sulle qualità delle persone e sul valore del lavoro come esperienza liberante e non opprimente. Solo attraverso uno schema di gioco cooperativo e di alleanza tra diversi soggetti è possibile cogliere l’occasione che sta dietro le grandi sfide sociali che la contemporaneità ci pone dinnanzi. L’augurio, perché la Festa del Lavoro sia davvero tale, è quello di riscoprire il valore autentico del lavoro per l’esperienza umana: un’occasione di crescita «materiale e spirituale» per tutta la società, come la stessa nostra Costituzione ci ricorda nell’articolo 4.

+ Roberto Repole
Arcivescovo di Torino e Vescovo di Susa